Per fermare lo slide-show cliccare su una freccia
E’ BREXIT
Alla fine dopo mille rinvii e mille consultazioni, finalmente il capitolo Brexit giunge al termine.
Il Regno unito ha concluso il suo percorso per l’uscita dall’Unione Europea.
Dal primo febbraio infatti il Regno Unito ha iniziato il proprio percorso in maniera autonoma, preparandosi al distacco definitivo che avverrà per la fine di quest’anno.
In un messaggio alla nazione il primo ministro Boris Johnson ha incitato all’ottimismo e richiamato all’unità un Paese profondamente diviso.
Ha definito questo passaggio “l’alba di una nuova era”, che “non segna una fine, ma un inizio”.
Ha rivendicato l’addio come “una scelta sana e democratica” sancita “due volte dal giudizio del popolo”, tanto nel 2016 quanto alle elezioni del dicembre scorso.
Ha esaltato le speranze di un rinnovato slancio all’interno, di un ruolo europeo e globale “indipendente” del Regno, ma anche di una “cooperazione amichevole” di buon vicinato con gli ex partner dell’Ue.
Non senza insistere sulla convinzione che la direzione intrapresa dall’Ue, pur “con tutte le sue ammirevoli qualità”, non fosse più adatta al destino britannico.
Il governo del Regno Unito ha dichiarato di voler cercare relazioni più distanti, dando la priorità a un accordo in stile canadese che consenta un commercio di merci tariffario e senza quote, che consenta alla Gran Bretagna di divergere dall’UE.
Ciò creerà una battaglia nei prossimi mesi non solo sull’allineamento delle normative, ma anche sulle norme per la protezione dei dati e sul futuro della città di Londra.
Dopo aver lasciato l’UE, il Regno Unito è ora libero di negoziare accordi commerciali con paesi al di fuori del blocco.
Johnson mira a concludere accordi in tutto il mondo per coprire l’80% del commercio britannico entro tre anni.
Il vero nodo riguarda ora il commercio e il lavoro.
In caso di aumento dei costi per l’export ad essere colpiti di più sarebbero i settori direttamente dipendenti dai processi di globalizzazione e quindi Automotive e trasporti, macchinari, elettronica, industria chimico-plastica.
FRONTIERE
Per quanto riguarda la reintroduzione delle frontiere si avrà il vero cambiamento il primo gennaio 2021 quando verranno per l’appunto reintrodotte.
Tuttavia, entro fine anno Londra e Bruxelles sono chiamate a stringere un nuovo accordo che regoli i rapporti commerciali
Ci sarà una fase transitoria, anche sul fronte delle dogane, fino a fine 2020.
Ma cosa cambia in concreto per le persone?
Tanto per cominciare nel Regno Unito risiedono oggi 3,6 milioni di cittadini di Paesi Ue, tra cui circa 400mila italiani registrati all’anagrafe consolare, che diventano oltre 700mila considerando anche i non registrati.
I britannici che risiedono invece in altri Paesi Ue sono 1,2 milioni.
In base dell’accordo di divorzio, tutti gli espatriati già registrati come residenti fino al 30 giugno 2021 manterranno gli attuali diritti nei rispettivi Paesi di accoglienza.
Le cose cambieranno tuttavia per gli ingressi successivi, con lo stop alla libertà di movimento nel 2021 e l’introduzione di nuove regole che determineranno una gestione diversa dei flussi migratori.
Di fatto, ci sarà un’equiparazione fra europei ed extracomunitari.
Per entrare nel Regno Unito servirà il passaporto e non basterà più la carta d’identità.
Riguardo al tema lavoro, anche qui gli sforzi sono direzionati alla formalizzazione di rapporti privilegiati fra Gran Bretagna ed Europa, ma le cose sembrano più complicate.
Lasciamoci alle spalle l’allarmismo della scorsa estate, quando uscì uno studio dell’Università di Leuven commissionato dal governo belga per capire l’impatto della Brexit su specifici settori industriali e quindi sui posti di lavoro, divisi per aree geografiche.
L’Italia?
Per l’Italia si parlava di ben 139 mila posti di lavoro che sarebbero andati perduti.
Ma quel numero si riferiva allo scenario peggiore, cioè l’uscita senza accordo.
Un’ipotesi ancora in campo, ma molto remota.
Per i lavoratori stranieri, anche italiani quindi, che lavorano nel Regno Unito non dovrebbe cambiare molto.
Dopo le accese polemiche delle ultime settimane, le autorità britanniche hanno confermato che non ci saranno “espulsioni”.
In ogni caso, è stata istituita un’apposita piattaforma online, Settlement Scheme, a cui i lavoratori stranieri sono tenuti ad iscriversi per mantenere il diritto ad acquisire il permesso di residenza.
Ad oggi, circa l’80% delle richieste di residenza, provvisoria o permanente, per vivere e lavorare in Inghilterra hanno già ottenuto il via libera.
Ci saranno solo più fastidi burocratici.
Più complesso il discorso per chi intende trasferirsi a lavorare in Gran Bretagna.
Mentre la legge inglese non prevede limiti a chi guadagna almeno 30mila euro l’anno, è probabile che diventerà più complicato l’ingresso per la manodopera non specializzata.
La sterlina si fa forza
Ora, chiariti questi aspetti, andiamo a fare il punto della situazione sulla sterlina, la quale dopo mesi di sofferenza ha avuto un aumento di volatilità che ha dato forza alla valuta, spingendola con vento a favore contro tutti i cross valutari.
Da come possiamo notare la sterlina dopo un momento di compressione della volatilità dovuta all’attesa delle molteplici notizie riguardati la BoE e la Brexit, vi è stata un’esplosione della forza relativa che ha portato la valuta a un apprezzamento generale.
Andando un po’ ai numeri, la sterlina in sole due sessioni di mercato ha guadagnato ben 230 pips contro il dollaro, e altri 200 contro lo yen, la valuta rifugio per eccellenza.
Ora mi aspetto una piccola fase di ritracciamento per poi dar modo al trend di rafforzamento di continuare la sua ascesa.
In questi casi in cui vi sono trend con forze relative di rilievo è fondamentale capire bene quali sono i livelli che possono interessarci per eventuali entrate a mercato, in modo da non essere stoppati immediatamente.
Tutto ciò è possibile grazie a un’analisi adeguata in cui le confluenze la fanno da padrona, dove si andranno a valutare aspetti come scambi volumetrici, pattern grafici e analisi fondamentali.
Azionario Usa
La crescita Usa, secondo la Fed nel suo ultimo report, all’inizio del verificarsi del coronavirus, segnalava una crescita a un ritmo «moderato», mentre i progressi sul mercato del lavoro erano ancora «solidi».
Investimenti fissi e le esportazioni «deboli», come a dicembre.
Basse, ma sostanzialmente invariate le aspettative di inflazione.
Restano invece presenti le incertezze «incluse quelle poste dal nuovo coronavirus», ha aggiunto Powell che però giudica prematura una valutazione degli effetti dell’epidemia.
In ogni caso, gli economisti ritengono che malgrado la debolezza del quarto trimestre, superiore alle attese, ci siano le condizioni per nutrire un «cauto ottimismo» sulla situazione economica globale (sviluppi del coronavirus permettendo), anche a causa del ridimensionarsi delle tensioni commerciali che però restano «elevate» e le minori probabilità di un hard Brexit.
Anche il manifatturiero sembra aver raggiunto il livello minimo di attività.
CORONAVIRUS ED ECONOMIA
Le ricadute sull’economia a causa del coronavirus potrebbero essere più gravi di quel che si pensa, visto il peggiorare delle ultime notizie.
Tutto questo potrebbe andare ben oltre il rallentamento dell’economia cinese, con l’effetto a catena sull’intera economia mondiale.
La crisi sanitaria rischia di intrecciarsi con una crescente fragilità sul fronte della finanza e i segnali che arrivano dal mercato non sono incoraggianti
A causa del coronavirus, la Fed lancia un allarme in quanto ritiene che sia a rischio la crescita mondiale.
Il coronavirus, ha affermato Powell pochi giorni fa, “è un problema molto serio”, sul quale “non intendo speculare”.
Comunque “intendiamo monitorarlo attentamente”.
“C’è incertezza sugli effetti macroeconomici del coronavirus”, che “avrà un impatto in Cina, almeno a breve termine e probabilmente anche per i loro vicini” ha aggiunto. “Dovremo solo vedere quali sono gli effetti a livello globale”.
Tutta questa paura/incertezza legata a questo ultimo aspetto potrebbe dare il via al trend bear che molti si aspettano dall’azionario americano, che come sappiamo benissimo è arrivato a dei valori preoccupanti, calcolando la rapidità e semplicità con cui sono stati rotti i relativi massimi storici.
Prima che sull’economia, tuttavia, l’impatto dell’epidemia lo potremmo vedere sulla finanza, con il rischio di effetto panico e valanga anche sull’economia reale.
Il punto è che questa volta i mercati azionari, in testa quelli americani, pompati dalla liquidità facile delle banche centrali, sono forse già allo stato di bolla, pronta a scoppiare.
Qualcuno sembra esserne già convinto.
Nell’ultimo mese, i rendimenti sui titoli del Tesoro Usa a dieci anni sono crollati del 17 per cento, segno che i prezzi sono schizzati di altrettanto verso l’alto per la domanda di investitori che abbandonano l’azionario per la sicurezza del reddito fisso.
Del resto, i dati che macinano gli analisti in queste ultime sedute sono allarmanti.
Enterprise value
Oggi, il valore d’impresa della crema delle aziende americane (l’Enterprise value è, sostanzialmente, il prezzo a cui in base a capitalizzazione in borsa più debiti, potrebbero essere vendute) è pari a 3,6 volte il fatturato.
Quando scoppiò la bolla delle dot.com era la metà.
Il parametro più noto, il price/earning (è il rapporto fra il prezzo di un’azione e la quota di profitti aziendali a cui sarebbe intitolata) è anch’esso largamente fuori quadro.
Normalmente questo rapporto è 16, oggi è 25.
Segno che il gap fra il valore in Borsa di un’azienda e i profitti che dovrebbero giustificarlo è sempre più largo. Se è una bolla, il coronavirus è la puntura di spillo che potrebbe farla esplodere.
Come non bastasse la Fed di New York ha pubblicato un modello che semplicemente utilizza la pendenza della curva dei rendimenti, o “spread”, per calcolare la probabilità di una recessione negli Stati Uniti con dodici mesi di anticipo.
Qui, il termine spread è definito come la differenza tra i tassi del Tesoro a 10 e 3 mesi.
Dal grafico sotto riportato, si può notare con che accuratezza questo indicatore ha previsto la crisi nell’arco dei 12 mesi, anche negli anni precedenti.
Ora il valore si registra a 32.8%, entrando di fatto in zona di allarme confermato, in quanto ogni valore superiore a 30% storicamente ha sempre predetto una crisi, se si guardano i valori fino agli anni 1969.
Tutto ciò se unito all’analisi fondamentale e non solo ci deve far riflettere su quello che potrebbe inevitabilmente accadere, quindi occhi puntati sui mercati e alle relative news.
Cross della settimana
Nell’analisi precedente vi avevo invitato a monitorare la coppia Euro/Dollaro, in quanto il cross era arrivato su zone di disequilibrio che avrebbero potuto avvantaggiare le nostre entrate a mercato e infatti così è stato.
Il mercato ci ha dato ragione.
L’euro da come indicato, si è rafforzato raggiungendo pienamente i target indicati nella precedente analisi, mettendoci in condizioni favorevoli in caso di un inseguimento del trend di bull in atto, nel breve-medio periodo.
Ancora una volta l’insieme delle confluenze ci ha consentito di avere un vantaggio statistico, costituito da pattern grafici, analisi volumetriche e analisi fondamentale.
Ora mi aspetto che il cross ritracci fino alla “nuova area di resistenza” ora diventata “nuova area di supporto”, per poi continuare l’apprezzamento della valuta comune fino a raggiungere il punto “C” dell’impulso AB=CD segnato in figura.
Con questo vi saluto e vi auguro buon trading.
Michele Cervellin
ARTICOLI RECENTI